Quel fattaccio al vascone

In un epoca, neppure troppo remota, nel quartiere di Centocelle a sud-est di Roma viveva un gruppo di amici scaltri e senza paura e né avrebbero combinate di tutti i colori, tanto da lambire pericolose connivenze. Erano cresciuti insieme e col passar degli anni avevano imparato a essere tolleranti fra loro, spesso somiglianti negli atteggiamenti e con un’intesa straordinaria fino a condividere i profondi segreti. Ma più eloquente era un sentimento che li guidava: il senso della libertà, a cui nessuno era disposto a rinunciare; esprimersi liberamente era imprescindibile.

L’avevano trasmessa l’uno all’altro per imitazione? Oppure proveniva da una sequèla parentale?

Potrebbero essere state valide entrambe le ragioni ma è lecito

pensare che, a far nascere il senso di libertà, siano state le scelte decise dalla mente di ognuno, che fossero creative o bastian contrarie, dai battiti dei cuori eccitati dalle forti emozioni e dalle passioni impulsive che muovevano ogni cosa senza una direzione prestabilita.

Sta di fatto che sentirsi liberi non era solo un concetto ma era il principio, il primo pensiero all’alba di un risveglio che fin da subito li slegava dalla camicia di forza imposta da una esistenza per nulla semplice.

Non davano nemmeno per scontato che essere liberi significasse

educazione, tantomeno rispetto. Irriverenti persino all’autorità degli adulti; a meno che non si rendessero disponibili per qualche servizio, ricompensato da una manciata di spicci per soddisfare i primi divertimenti.

Cresciuti in un epoca tra l’eco del dopoguerra e il nascere di una

grande ripresa economica, ancorché lontana dai vantaggi dei moderni mezzi di comunicazione, esprimevano virtù e fantasia con

i giochi, sia all’interno delle proprie camerette che negli ampi spazi

aperti concessi dalla periferia di allora.

Avevano imparato a convivere nelle condizioni più estreme, per la giovane età. Si picchiavano con tutti, persino fra loro, con una bella faccia tosta, ma liberi. Appagavano il divertimento con un innocente impudenza, concessa anche dalla vita più semplice di quei tempi. A volte, il senso della libertà superava i margini del sentimento puro e onesto, perdendo la dignità e la sensibilità alla morale, fino a sconfinare in imprese audaci al limite della legalità, subendo le fatali ripercussioni. Il gruppo libero esaltava la sua unicità e la sua essenza come avviene in un gioco di squadra, dove ognuno sapeva cosa fare nel suo ruolo e avrebbe fatto ciò che era meglio per gli altri, mentre le singole emozioni arrivavano al cuore di tutti e la complicità era la componente di rilievo delle loro macchinazioni.

Tuttavia, tale era la versatile attività, un indole votata sì al puro

divertimento, ma non per questo insensibile alla propria coscienza

di ragazzi responsabili.

Ciò avveniva a conforto dei momenti di difficoltà personale o

semplicemente quando capitava di andare a mangiare una pizza o al cinema; se in quell’occasione qualcuno della compagnia non

avesse avuto di che pagarsi lo svago veniva sostenuto dagli altri, con sottaciuta intesa. Dovevano stare in gruppo sempre, in ogni circostanza.

Mai criticità doveva scalfire la bella amicizia, nemmeno se per caso ci fossero state discussioni e reciproci malintesi.

Avevano molte cose in comune e questo sarà il punto cruciale

del lungo cammino insieme.

Nessuno avrebbe prevaricato alcuno da vincoli subalterni.

Tutti vissero la propria esistenza con dignità e sacrifici.

Neppure uno sarebbe rimasto indietro.

Eccoli la, lo zoccolo duro di quelli rimasti, un giorno d’estate del

1970; era di sabato e il sole già picchiava forte.

Seduti intorno al tavolino fuori dal bar oziavano in attesa che venisse fuori l’idea di come passare il resto della giornata.

Gargarozzo propose di andare al vascone a fare un bagno rinfrescante e mitigare una giornata già molto calda.

«Che dite c’annamo regà?» Preso dall’entusiasmo di passare

qualche ora di divertimento.

«Io ce sto!» Aderì subito Gionni.

«Pure io!» Seguitò Cico, e così pure Nizza, Storcinato, Mommoletto, il Siculo, il cespuglioso Bellicapelli, Scarpone, Cicero e lo smilzo Amen-deo.

Zagaja ci pensò un po’ e si convinse.

«Sbrigamose allora, vado a prenne la-l’asciugamano e se ve-vedemo qui fra venti minuti.»

Gajardone era dispiaciuto perché doveva stare a pranzo con i suoi; erano arrivati i nonni con i cugini da fuori.

Scintilla non si era proprio visto in giro.

Il vascone era un grande contenitore circolare pieno d’acqua, fatto

in cemento e teneva un diametro di una ventina metri e alto due.

All’interno, tutto intorno, il muro di contenimento aveva uno spessore di circa mezzo metro ed era il posto dove i bagnanti occasionali si sdraiavano per abbronzarsi.

Il recipiente era utilizzato per irrigare i terreni coltivati della campagna romana e si trovava verso Torre Maura a sei chilometri dalle case dei ragazzi. Dovevano raggiungere il posto a piedi, a passo veloce per non arrivare troppo tardi e rischiare di farsi beccare dai contadini, che ogni giorno alle quattro di pomeriggio

rientravano dai campi di lavoro per aprire le valvole a saracinesca del vascone, azionate da un volantino e attingere all’acqua.

«Me fate venì pure a me?»

Li supplicò Romoletto, un ragazzino di dodici anni che passava il tempo al bar a curiosare sulle chiacchiere di quelli più grandi.

«Ma che stai a dì!» Lo redarguì Bellicapelli. «Ma ‘ndo vieni co

sto cane appresso? Noi se dovemo sbrigà, c’è da fa parecchia

strada!» E lo lasciò lì di sasso.

Il piccoletto insisteva. «E dai, nun ce sò mai stato… me piacerebbe tanto… nun ve do fastidio, io cammino de fianco a voi.»

Scarpone, con le buone, chiuse la trattativa ma con un ammonimento.

«A Romolé vabbè, viecce dietro ma tu dentro l’acqua nun c’entri, il bagno nun te lo fai, se semo capiti?»

«E chi se lo fa, nun sò capace manco a sta a galla io.»

Con questa promessa partirono tutti assieme, in pantaloncini e canottiera.

Romoletto s’incamminò insieme a Cecio il suo docile bastardino

e camminava di fianco a Nizza che ogni tanto gli dava un’occhiata

e lo sollecitava.

«Aho daje ‘n pò, te voi move?»

Ognuno avevano portato con sé l’asciugamano, un panino e la

borraccia d’acqua, qualcuno pure la ciambella salvagente, per sicurezza. Durante il tragitto Mommoletto, che non era proprio un watusso ma sapeva essere divertente, iniziò alla sua maniera a raccontare storielle, a tirar fuori indovinelli. Ne sciorinò una

ventina lungo tutta la strada. Partì l’ultimo quiz.

«Aho, sapete qual è er nome der farmacista cinese?»

Strillò con quanto fiato aveva in gola.

«No, nun lo sapemo, diccelo!» Sbuffò Storcinato portando giù le

sue braccia con le mani aperte e le guance gonfie, stremato dai

rompicapi a raffica che il suo amico aveva propinato.

E Mommoletto fornì la risposta, «Chan Kashè.»

«Ecco giusto ‘na pasticca me ce vole, m’è venuto er mar de testa

a sentì tutte ste stronzate!» Si lamentò pungente ancora il suo

amico.

«E piantala Storcinà! Come sei polemico! Però, quella che c’ha

riccontato prima m’ha fatto piegà da le risate, è vero rega?» Gionni invece incoraggiò lo spassoso bassetto.

«Ma l’assalo raccontà! Armeno camminamo, ridemo e ce fa pure

scordà quanto picchia er sole.» Si frappose Bellicapelli affaticato

dal caldo mettendo così fine alla faccenda.

Arrivarono nei pressi del vascone che s’era fatto mezzogiorno

passato ed erano felici pensando al divertimento che li aspettava.

Prima di superare un fitto canneto decisero di cambiare “l’acqua alle olive” per liberarsi di un sicuro disagio che li avrebbe colti

inevitabilmente all’interno della cisterna.

Ripresero il cammino e subito apparve alla loro vista Straccio, il

terrore della borgata, con appresso i suoi gregari che prendevano il

sole sul parapetto.

[…]

Straccio, detto il Nero, era un tracagnotto dallo sguardo cattivo e

le pupille nerissime che si era guadagnato la fama di prepotente

pestando chiunque con le maniere spicce, spesso senza una valida

ragione. Si era reso protagonista di un sopruso nei confronti di un loro amico di nome Scintilla, l’unico della compagnia bella a sconfinare in connivenze pericolose, rubandogli la giacca che aveva appena comprato con i soldi ricavati dal furto di una bicicletta.

Lungo la via di casa gli azzurri occhi scioccati e smarriti di Scintilla, riflettevano l’umiliante trattamento ricevuto dai falsi amici e su tutte le cazzate che aveva combinato con loro, come fosse rientrato in sé a scuotere un torpore, o meglio una malattia dell’animo che non l’avrebbe portato da nessuna parte.

Quel senso di libertà era deformante, era la sua stupida

immagine riflessa allo specchio, priva di significato.

Prima di arrivare al domicilio incontrò i suoi veri amici seduti al bar e come non aveva fatto mai si confessò sincero, perdendo per una volta l’aria da spaccone e raccontò quello che gli era capitato, con molta rabbia in corpo.

[…]

L’inatteso incontro al vascone non spaventò affatto i ragazzi della compagnia bella; da Zagaja a Scarpone si guardarono l’uno con l’altro, decisi a non fare un passo indietro; stavolta non c’era solo uno di loro ad affrontarli, adesso c’era tutto il gruppo e non pensarono nemmeno un istante di lasciar perdere. Anzi, era l’occasione per rivendicare il torto subito da Scintilla. «A rega è mejo che l’affrontamo subbito sti infami. Pure se la superamo s-s-sta battaja sarà sempre un massacro. F-forza annamo, senza paura!»

L’adrenalina era salita a mille.

Mentre si avvicinavano al vascone il Nero avvertì con un cenno il suo vice Spugna e i “vassalli” di tenersi pronti, poi con un balzo scese dalla balaustra sbarrando la strada agli acerrimi nemici.

«Ma che sete venuti a fa, a sporcà l’acqua?»

Li provocò impettito con gli occhi socchiusi e spavaldo, le mani sui fianchi e le gambe aperte.

Cicero si piazzò davanti a lui e lo guardava dall’alto in basso;

Straccio gli rendeva almeno quindici centimetri.

«Avemo fatto tutta sta strada pe sentì sta stronzata? Levate te

piuttosto, ladro de giacche!»

«Sta dietro, indietreggia! T’ho detto indietreggia!»

Il parapiglia fu inevitabile, il Nero attaccò subito afferrando al collo il pugile dilettante che con un braccio si liberò e gli sferrò un pugno in piena faccia che lo fece barcollare; uno aveva i polsi grossi e picchiava con precisione, l’altro tanta cattiveria che la bava gli saliva sulla bocca. I cazzotti di entrambi si sferravano a una velocità incredibile. Se le diedero di santa ragione ma nessuno dei due prese il sopravvento.

Gli altri si azzuffarono a casaccio, a mani nude, senza un avversario di riferimento e si pestarono perbene.

A mettere fine al combattimento intervennero una decina di ragazzi più grandi, che udite le forti grida s’avvicinarono per dividerli e rimproverarli per il troppo chiasso, che se l’avessero udito le orecchie dei contadini si mettevano in allarme.

Ci rimise più di tutti Cico con l’occhio destro che si gonfiava come un palloncino; piangeva e si lagnava. Per alleviarli il dolore gli coprirono la ferita con un fazzoletto bagnato.

Calmati gli animi salirono sul parapetto, i malandrini da un lato e la compagnia bella dalla parte opposta. Sistemarono gli asciugamani e finalmente entrarono in acqua a mitigare il gran caldo. Romoletto si era accomodato con a fianco il cagnolino e passata la paura della rissa si distese; guardava gli amici che sguazzavano felici, i suoi occhi brillavano di contentezza e pensava

al giorno in cui avrebbe imparato a rimanere a galla, lui, che non aveva visto neanche il mare.

L’odore della campagna circostante riempiva l’aria di un profumo di grano appena mietuto e la pace nell’azzurro cielo era in sintonia

con una leggera brezza rinfrescante.

La temperatura al sole sfiorava i quarantacinque gradi e più di

qualcuno accusò il colpo e uscì fuori di testa; chi desiderava di stare al fresco della montagna, chi evase dalla sua mente e confessò di avere avuto l’illusione di trovarsi in un’isola tropicale, nel bel mezzo dell’oceano.

Il sogno a occhi aperti fu bruscamente interrotto dalla realtà. Le voci allarmate che avvistavano i contadini scatenarono il fuggifuggi dal vascone in tutte le direzioni. Saranno stati una trentina e tutti uscirono in modo caotico, tant’è che un ragazzo, forse spaventato per la paura di non farcela a superare il cordolo e incurante di avere a fianco Romoletto, proprio mentre si accingeva ad alzarsi, afferrò il suo braccio sinistro provocandogli la perdita dell’equilibrio e la caduta in acqua.

Il ragazzino negli ultimi istanti cercò un disperato tentativo per

aggrapparsi al cordolo ma nella solitudine più agghiacciante,

terrorizzato dall’incapacità di restare a galla, fu sopraffatto scivolando verso il fondo.

Quando Nizza si accorse che non era con loro tornò subito indietro e vide il cagnolino sul parapetto che abbaiava dalla parte dell’acqua. Per la paura che fosse accaduta una disgrazia, un brivido freddo lo attraversò lungo tutta la schiena e gli entrò nelle ossa.

Gridò a squarciagola in direzione dei contadini che udirono quei terribili richiami e s’affrettarono a entrare in cisterna, riemergendo poco dopo con Romoletto in braccio, senza vita. Questo fu il triste epilogo che segnò la sua breve esistenza.

Esattamente un anno dopo i ragazzi erano ancora lì seduti intorno al tavolino fuori dal bar, quando il sor Mario, il gestore, uscì dalla porta e vide passare la sora Tuta.

«Bongiorno signò, ‘ndo va co sto bel mazzo de fiori?»

«Vado al cimitero a portarli sulla tomba di mio figlio, oggi è la

ricorrenza della disgrazia de Romoletto mio.»

Rispose piagnucolando ancora struggente di dolore, diretta alla fermata dell’autobus.

All’assistere a quello scenario i ragazzi si rattristarono tutti,

ricordando la tragedia che avvenne sotto i loro occhi. L’immagine straziante del corpo del loro piccolo amico era ancora viva nella mente dei ragazzi, tutti a capo chino.

E dopo un silenzio infinito, uscirono finalmente le parole, quelle di Gajardone, dritto in piedi mentre i suoi occhi si soffermavano sulla commozione di Gargarozzo, poi di Scarpone e infine di Nizza, ognuno con lo sguardo fisso a terra provando quel senso di colpevolezza che prende quando il gioco iniziale si

tramuta in una fatalità.

«Posso solo intuì che ve passa pe la testa, il rimorso che quarcuno de voi continua a portasse dietro come una mannaia. Lo volete capì che nessuno se deve sentì responsabile della disgrazzia. Che potevate fa de diverso pe salvallo? Nun avreste potuto facce gnente! Er ragazzino nun era ‘n bimbo da portà ‘n braccio, sapeva riconosce er pericolo e poi chi poteva immagginà l’imprevedibile incidente? Dateme retta, nun ce tornamo più su sta faccenna, annamo avanti!»

Concluse accorato.

Lentamente alzarono la testa e Scarpone emanò un lungo sospiro,

come se le parole dell’amico avessero reso giustizia al rimpianto

che si portava dentro.

I volti finalmente si rasserenarono e Mommoletto colse l’occasione per rievocare un episodio divertente avvenuto qualche anno prima, mentre Cicero, a sorpresa, offrì la bevuta a tutti.

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